mercoledì 11 febbraio 2009

RECENSIONE di Marco Iacona (Secolo d'Italia)

Franco Ferrarotti è il nome più noto della ricerca sociologica in Italia. Professore emerito di sociologia all’università di Roma “La Sapienza”, le sue pubblicazioni hanno fatto il giro del mondo, oltre quelle dei canali televisivi. È stato direttore e fondatore di prestigiose riviste scientifiche. Negli anni Ottanta convinto da Antonio Altomonte divenne anche collaboratore de “Il Tempo” notissimo quotidiano conservatore romano che lo stesso Ferrarotti descrive come non eccessivamente vicino alla propria sensibilità. Il lettore avrà dunque certamente capito.
Eppure con coraggio (perché no?) e con ammirevole coerenza lo stesso professore ha deciso di pubblicare una raccolta dei suoi articoli del tempo (per la precisione dal 1983 al 1985), affidandola nel 2008 ai tipi della Solfanelli. Ne è venuto fuori un volumetto interessante di argomentazioni varie, come vari sono i temi di cui, come si sai, un sociologo (studioso ed osservatore dei fenomeni sociali per eccellenza), è portato ad occuparsi continuamente. Dal titolo irriverente e dal contenuto brillante, Fondi di Bottiglia (pp. 112, euro 9.00), che rimanda se vogliamo ad una doppia lettura. Perché doppio è il gusto col quale il professore romano ama trattare i suoi argomenti prediletti. Critico e ironico, col giusto spessore dell’idealista lato sensu.
Un sociologo in primo luogo è portato a concentrasi sul cambiamento sociale, o meglio sul cambiamento del modo di raccontare il mondo (i filosofi lo immaginano e gli scienziati lo raccontano…), sui mezzi di comunicazione di massa, sulle novità che inducono alla mutazione, che sono a loro volta figlie delle diverse mutazioni e così via a catena. Dunque non è difficile capire perché i punti di riferimento di uno studioso di sociologia siano tantissimi. Dalle condizioni delle casalinghe (quelle che Nietzsche maltrattava), all’eterno ritorno del sacro («Il sacro non è solo essenziale come termine trascendente contro cui misurare il limite della razionalità storica e nello stesso tempo riscoprire la funzione sociale dell’utopia. È anche la gerarchia dell’ordine cosmico e terreno ed è nello stesso tempo la forza che ne costituisce la condizione»). Per finire sempre a parlare di storia, della sua valenza e del suo utilizzo. Storia in quanto coscienza storica, scrive Ferrarotti, storia delle grandi cose e dei grandi eventi e uomini. O viceversa storia delle “storie” nascoste o di quello che non vogliamo o possiamo vedere?
Forse un po’ più la seconda della prima, anche se un sociologo deve sapersi incamminare sui sentieri della conoscenza diretta delle personalità che hanno lasciato un segno, nel bene e nel male, in quella grande lavagna nera che si chiama cultura o con termine più pomposo o a volte solo polemico “civiltà”. In quella lavagna compariranno così i nomi e i cognomi dei più pericolosi appartenenti alle cosche mafiose, ma anche quelli dei più grandi scrittori del secolo appena passato come Marguérite Yourcenar, uniti con estrema facilità, è giusto dire, dal gusto dell’Autore per la sottile scoperta, per la polemica sottovoce per l’abile mescolanza di fatti e opinioni.
E fra il bene e il male Ferrarotti colloca anche la citazione dotta, quella filosofica (Machiavelli, Max Weber, Benedetto Croce, Hegel, pietre miliari che non hanno bisogno di presentazione alcuna) e quella giornalistica, quella degli intellettuali (strana categoria posta fra le cime del sapere e le fosse oceaniche), e quella dei bestselleristi e della varia umanità occidentale.
Come legare insieme tanto sapere, fatto di argomenti non facili a volte quasi oscuri, studi e citazioni? Il libro, il saggio breve o lungo che sia, è forse uno dei denominatori comuni per porre in comunicazione i 22 articoli di media lunghezza e la breve raccolta di aforismi di cui si compone Fondi di bottiglia. Ferrarotti passa velocemente, ma non superficialmente in rassegna volumi che negli anni in cui pubblicava gli articoli sul “Tempo” rappresentavano dei casi editoriali o avrebbero semplicemente fatto parlare di sé all’interno di una ristretta cerchia di studiosi. Ricordiamo certo il volume di Gianni Vattimo La fine della modernità (Garzanti 1985), quello di Leonardo Tomasetta, Classi, governabilità, potere (Clueb 1984), libri sulla crisi e sulla fine della modernità. Su quest’ultimo tema Ferrarotti tornerà anche nelle diverse appendici al volume dedicate sia ad una raccolta di pensieri e aforismi sia al pensiero di Pier Paolo Pasolini. Un tema dunque a lui caro.
Nella prima appendice il professore-critico scaglia le proprie frecce acuminate contro il mondo trattando di casi bizzarri, strambi o situazioni cosiddette limite; gocce di strana modernità o di postmodernità appunto: «programmi culturali Usa. Concerto di musica classica alla televisione. Molto godibile. Poi, all’improvviso nella pausa, uno spot pubblicitario: What can you do for the urinary tract of your cat?. Quasi un controcanto. Certamente un contraccolpo».
La parte finale del libro formata da articoli pubblicati sul "Corriere della sera" è dedicata come si diceva a Pasolini. Anche in questo caso Ferrarotti non lesina critiche. In primo luogo contro quella cosiddetta “culturologia” di cui sarebbe portatore PPP. Il poeta friulano sarebbe il portavoce di un discorso ambiguo fra nuovo-fascismo e modernizzazione, termini da utilizzare come fossero sinonimi. Se tutto (o quasi tutto) è fascismo, scrive però Ferrarotti, allora nulla lo è...
A proposito di modernità. Ferrarotti fu anche consigliere di Adriano Olivetti. Nelle pagine del libro lo definisce un anticipatore; le sue reali influenze si possono trovare nel “New Deal”, nella Germania di Weimar, nell’Inghilterra della London School of economics and political sciences, nel fabianesimo e nel personalismo francese.
Storia, filosofia e scienze unite nella e per la modernità, dunque... “Bella” o “brutta” che sia è sempre di lei, la modernità, che gli studiosi amano discutere.

Marco Iacona

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